Capitolo 8

Il Croquet della Regina

Un magnifico rosajo stava vicino all’ingresso del giardino: le sue rose erano bianche, ma tre giardinieri che gli stavano d’intorno erano occupati a colorirle di rosso. Davvero, è curioso! pensò Alice, e si avvicinò per osservarli, e quando vi fu presso sentì che uno di loro diceva, “Fa attenzione, Cinque! Non mi schizzare con le tue pennellate!”

“Non ho potuto farne di meno,” rispose Cinque, con tuono burbero; “Sette mi ha urtato il gomito.”

Sette lo guardò e disse, “Ma bene! Cinque incolpa sempre gli altri!”

Tu faresti meglio di zittire!” disse Cinque. “Non più tardi di ieri, sentii che la Regina diceva che tu meriteresti d’essere decollato!”

“Perchè?” domandò il primo che avea parlato.

“Ciò non preme a te, Due!” ripose Sette.

Gli preme, certo!” disse Cinque, “e gliel dirò io—perchè portasti al cuoco bulbi di tulipano invece di cipolle.”

Sette scaraventò lontano il suo pennello e stava lì lì per dire, “In mezzo a tutte le cose le più ingiuste—” quando s’accorse d’Alice che li osservava, e divorò il resto della frase: gli altri la guardarono del pari e le fecero tutti una profonda riverenza.

“Mi direste,” domandò Alice, ma timidamente, “perchè state colorendo quelle rose?”

Cinque e Sette non risposero, ma guardarono Due. Due disse allora con voce bassa, “Gli è perchè, codesto costì doveva essere un rosajo di rose rosse, e noi per isbaglio ne abbiam piantato uno che dà rose bianche; or se la Regina se ne avvedesse, a tutti le teste sarebbero tagliate. Così, Signorina, facciamo il meglio per riparare pria che venga a—” In quell’istante, Cinque che guardava attorno con ansietà, gridò “La Regina! La Regina!” e i tre giardinieri si misero subito con la faccia per terra. Si sentì un grande scalpiccío, e Alice si mise a guardare per veder la Regina.

Prima comparvero dieci soldati armati di bastoni: erano conformati come i tre giardinieri, bislunghi e piatti, con le mani e i piedi agli angoli: seguivano dieci cortigiani, tutti sfolgoranti di diamanti; andavano a due a due, come i soldati. Venivano poi i principini reali; erano dieci, divisi a coppie e tenendosi per la mano,—andavano innanzi quegli amorini saltando come matti: erano ornati di cuori. Poi sfilavano gl’invitati, la maggior parte Re e Regine, e fra loro Alice riconobbe il Coniglio bianco; discorreva con una fretta nervosa, facendo bocca da ridere a chiunque gli parlava, e passò oltre senza punto badare ad Alice. Seguiva il Fante di Cuori, portando la Corona Reale sopra un cuscino di velluto rosso; e finalmente venivano IL RE E LA REGINA DI CUORI.

Alice non sapea se dovesse cadere a faccia per terra come i tre giardinieri, ma non potè ricordarsi che ci fosse un tal cerimoniale nelle processioni regie; “e poi, a che servirebbero coteste processioni,” riflette fra sè, “se tutti dovessero stare a faccia per terra, e niuno potesse vederle?” Così restò dov’era, ed aspettò.

Allorchè la processione giunse vicina ad Alice, tutti si fermarono e la guardarono; e la Regina gridò con cipiglio severo, “Chi è costei?” e si rivolse al Fante di Cuori, il quale rispose con un risolino e una riverenza.

“Imbecille!” disse la Regina, e impaziente, scosse il capo; indi rivolgendosi ad Alice, continuò a dire, “Come ti chiami fanciulla?”

“Maestà, mi chiamo Alice,” rispose la fanciulla con molta garbatezza, ma soggiunse a sè stessa, “Non è che un mazzo di carte soltanto. Non c’è da aver paura di costoro!”

“E chi sono cotestoro?” domandò la Regina, indicando i tre giardinieri che baciavano la polvere intorno al rosajo; perchè, capite, siccome giacevano sulle lor faccie, e il disegno del loro di dietro rassomigliava a quello del resto del mazzo, non sapea discernere se fossero giardinieri, o soldati, o cortigiani, o tre de’ suoi proprii figli.

“Come volete ch’io lo sappia,” rispose Alice, che si meravigliava del suo proprio coraggio. “Ciò non mi spetta.”

La Regina diventò di fiamma per la rabbia, dopo d’averla fissata ferocemente come una bestia selvaggia, gridò, “Tagliatele il capo! subito—”

“Eh, via!” rispose Alice a voce alta e con fermezza, e la Regina si tacque.

Il Re appoggiò la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente, “Cara mia, riflettici bene su: la è una bambina!”

La Regina gli voltò le spalle con viso irato, e disse al Fante, “Rivoltateli!”

Il Fante ubbidì, e con un piede li rivoltò cautamente.

“Levatevi!” urlò la Regina, e i tre giardinieri si alzarono immediatamente, e s’inchinarono davanti al Re, alla Regina, ai figli reali, e a tutti gli altri.

“Basta!” sclamò la Regina. “Mi fate girare il capo.” E guardando al rosajo, continuò, “Che cosa avete fatto al rosajo?”

“Con la buona grazia della Maestà vostra,” rispose Due, con voce umile, e piegando il ginocchio a terra, “noi volevamo—”

“Lo vedo!” disse la Regina, che avea già osservate le rose. “Tagliate loro il capo!” e la processione reale si mosse, lasciando indietro tre soldati per mozzare il capo agli sventurati giardinieri, che corsero ad Alice per esser da lei protetti.

“Non vi decapiteranno!” disse Alice, e li mise in un grosso vaso da fiori che stava vicino a lei. I tre soldati vagarono quà e là per qualche istante, in cerca di loro, e poi quietamente seguirono la processione reale.

“Avete loro recisa la testa?” gridò la Regina.

“Maestà, le loro teste non sono più!” risposero i soldati.

“Bene!” gridò la Regina. “Sapete giuocare a croquet?”

I soldati zittirono, e guardarono Alice, credendo che la domanda fosse rivolta a lei.

“Sì!” gridò Alice.

“Avvicinatevi dunque!” urlò la Regina, ed Alice raggiunse la processione, curiosa di sapere ciò che avverrebbe in seguito.

“Fa—fa bel tempo!” disse una timida vocettina presso a lei. Vide che ella camminava a canto del Coniglio bianco, che la stava occhiando, affissandola in faccia con un certo fare inquieto e timoroso.

“Bellissimo,” rispose Alice: “dov’è la Duchessa?”

“St! st!” disse il Coniglio a voce bassa, e parlando in fretta. Riguardò ansiosamente intorno a lui, ed alzandosi sulla punta de’ piedi, bisbigliò all’orecchio della fanciulla, “è sotto sentenza di morte.”

“Per quale peccato?” domandò Alice.

“Avete detto ‘Che peccato!’?” disse il Coniglio.

“Ma no,” rispose Alice: “Non credo punto che sia peccato. Dissi ’Per quale peccato?‘”

“Ha schiaffeggiata la Regina—” cominciò il Coniglio. Alice scoppiò in una grossa risata. “St!” bisbigliò il Coniglio tutto tremante, “La Regina vi potrebbe sentire! Vedete, essa è venuta un pò tardi, e la Regina ha detto—”

“Ai vostri posti!” gridò la Regina con voce tuonante, e gl’invitati cominciarono a correre verso tutte le direzioni, rovesciandosi gli uni sugli altri: finalmente poterono mettersi in un certo ordine, e poi cominciò il giuoco.

Alice osservò che mai in sua vita non avea veduto un terreno più curioso per giuocare il Croquet; era tutto a solchi e zolle; le palle erano ricci, i mazzapicchi erano fenicònteri viventi, e gli archi erano soldati viventi, curvati e reggentisi sulle mani e su’ piedi.

La prima difficoltà stava in ciò che Alice non sapea come maneggiare il suo fenicòntero; riuscì a tenerselo bene avviluppato sotto il braccio, con le gambe penzoloni, ma quando gli allungava il collo, e si preparava a picchiare il riccio con la testa, il fenicòntero girava il capo e poi si metteva a guardarla in faccia con una espressione tanto stupefatta che ella non poteva far di meno di scoppiare dalle risa: e quando gli abbassava di nuovo il collo, e si accingeva a ricominciare, ecco il riccio si era sricciato, e andava via: oltre a ciò e era sempre una zolla o un solco là dove voleva sbalzare il riccio, e siccome i soldati si alzavano sempre e vagavano quà e là, Alice si persuase che quello era un giuoco disperatamente difficile.

I giuocatori giuocavano tutti insieme senza aspettare la loro volta, litigando sempre e picchiandosi a causa de’ ricci; di tal che la Regina ne diventò furiosa, e andava quà e là battendo il piede e vociando ad ogni istante, “Mozzategli il capo!” oppure “Mozzatele il capo!”

Alice cominciò a sentire un pò d’ansietà: è vero che non avea contrastata con la Regina, ma ciò poteva accadere ad ogni momento, e pensò “che cosa ne sarà di me? Quì hanno un gusto matto a mozzar teste; è una meraviglia se ve ne sia alcuno che abbia ancora il capo sul collo!”

E studiava il modo di scappar via, senza esser veduta, quando osservò un’apparizione curiosa nell’aria; prima ne restò sorpresa, ma dopo averla riguardata un poco, vide un ghigno, e disse fra sè, “è Ghignagatto: ora avrò qualcheduno con cui discorrere.”

“Come va il giuoco?” disse il Gatto, appena ch’ebbe tanta bocca per cominciare a parlare.

Alice aspettò che gli occhi apparissero, e poi gli fè cenno col capo. “è inutile parlargli,” pensò fra sè, “aspettiamo che almeno gli orecchi appariscano, almeno uno.” Immediatamente apparve tutta la testa, e Alice depose il suo fenicòntero, e cominciò a raccontare come andava il giuoco, lieta che uno le prestasse attenzione. Il Gatto intanto dopo aver fatto mostra della sua testa, pensò bene a non mostrare il resto del suo corpo.

“Non credo che giuochino lealmente,” disse Alice, lagnandosi, “contrastano fra loro furiosamente e non si può sentire neppure la propria voce—non hanno ordine nel giuoco; e se ve n’è, niuno lo segue—e non potete credere che confusione c’è, perchè quì tutto è vivente: per esempio, ecco l’arco ch’io dovrei traversare, ma mi scappa via all’altra estremità del terreno,—e avrei dovuto fare croquet col riccio della Regina, ma m’è fuggito via appena vide il mio!”

“Come vi piace la Regina?” domandò il Gatto a voce bassa.

“Punto, punto!” rispose Alice: “la è tanto—” Ma s’accorse che la Regina le stava vicino, origliando, e continuò, “—abile nel giuocare e vincere, ch’è inutile di finire la partita.”

La Regina sorrise, e andò altrove.

“Con chi parlate voi?” domandò il Re, che s’era avvicinato ad Alice, ed osservava la testa del Gatto con molta curiosità.

“è un amico mio—un Ghignagatto,” disse Alice, “vorrei presentarlo a Vostra Maestà.”

“Non mi piace punto il ceffo che ha,” rispose il Re; “ma può baciarmi la mano, se vuole.”

“Non ne ho punto voglia,” osservò il Gatto.

“Non siate impertinente,” disse il Re, “e non mi guardate a quel modo.” E mentre parlava si nascondeva dietro ad Alice.

“Un gatto può guardare un Re,” osservò Alice, “l’ho letto in qualche libro, ma non ricordo quale.”

“Bene, ma bisogna cacciarlo via,” disse il Re con voce autorevole, e chiamò la Regina che passava colà in quel momento, “Cara mia! Vorrei che quel gatto fosse cacciato via!”

La Regina conosceva una sola maniera per appianare tutte le difficoltà, grandi o piccole che fossero, e perciò senza neppure guardare intorno, gridò, “Mozzategli il capo!”

“Andrò io stesso a cercare il boja,” disse il Re, e andò via frettolosamente.

Alice pensò che sarebbe bene d’andare a vedere come il giuoco progrediva, tanto più che sentì da lontano la voce della Regina che urlava con ira. Ella avea di già sentito che avea condannato nel capo tre giuocatori che avevano mancato alla loro volta; tutto ciò non le piaceva, perchè il giuoco era caduto in tale confusione che ella non sapea più se la sua volta fosse venuta o no. Andò dunque in cerca del suo riccio.

Il riccio stava allora battagliando contro un altro riccio, ciò sembrò ad Alice una occasione propizia, per battere a croquet l’uno con l’altro di loro: ma v’era una difficoltà, il suo fenicòntero era andato all’altro lato del giardino, e Alice lo vide che si sforzava inutilmente di volare sopra un albero.

Quando le riuscì di afferrare il fenicòntero e lo ricondusse sul terreno, il combattimento era finito, e i due ricci s’erano allontanati: “importa poco,” pensò Alice, “poichè tutti gli archi se ne sono iti all’altro lato del terreno.” E se lo acconciò per benino sotto l’ascella, acciocchè non scappasse più, e ritornò al micio per riappiccicar con lui il discorso.

Ma con sua sorpresa trovò una folla immensa intorno al Ghignagatto: il Re, la Regina, e il boja vociavano tutti e tre insieme, e gli altri erano silenziosi e malinconici.

Appena Alice apparve, i tre si appellarono a lei per risolvere la quistione, e le ripeterono i loro argomenti, parlando tutti a una volta, così che era difficile per lei d’intendere che volessero dire.

L’argomento del boja era che: non poteva tagliare una testa se non ci fosse un corpo da cui mozzarla; che non avea mai avuto a fare una cosa simile innanzi, e che non voleva cominciare a farne a quell’età.

L’argomento del Re era che: ogni essere che ha una testa può essere decapitato, e il boja non dovea dir sciocchezze.

L’argomento della Regina era che: se non si faceva presto avrebbe ordinato che tutti quelli che la circondavano fossero decapitati. (Era questa l’osservazione che avea dato a tutti quell’aria grave e piena d’ansietà.)

Alice non seppe trovar altro a dire che, “Il gatto appartiene alla Duchessa: fareste bene di consultar lei su di ciò.”

“Ella è in prigione,” disse la Regina al boja: “Conducetela quì.” E il boja andò via come una saetta.

Appena il boja sparì, la testa del Gatto andò dileguandosi, e quando ritornò con la Duchessa, era sparita totalmente: il Re e il boja corsero quà e là all’impazzata per ritrovarla, mentre gl’invitati ritornarono a giuocare.

CAPITOLO IX.

STORIA DELLA FALSA-TESTUGGINE.

“Non potete credere quanto son lieta di ritrovarvi, bambina mia!” disse la Duchessa, mettendo amichevolmente il suo braccio in quello di Alice, e camminando insieme.

Alice era lieta di rivederla in tale buon umore, e pensò che forse era il pepe che l’avea resa tanto irritabile quando la vide in cucina. “Allorchè sarò Duchessa,” disse fra sè (ma senza troppo sperarlo), “non voglio aver punto pepe nella mia cucina. La minestra è buona anche senza. Chi sa che non sia il pepe che rende la gente cotanto piccosa?” continuò tutta lieta d’aver scoperta una specie di nuova teoria, “è l’aceto che la rende aspra—è la camomilla che la rende amara—e sono i confetti e cose simili che addolciscono il carattere de’ bambini. Vorrei che si conoscesse ciò; le persone non sarebbero tanto tirchie a darcene—”

E così discorrendo avea quasi dimenticata la Duchessa, e trasaltò quando si udì dire all’orecchio. “Cara mia, voi avete la testa ad altro, e dimenticate di parlare con me. Non potrei dirvene ora la morale, ma me ne ricorderò fra breve.”

“Forse non ne ha,” osservò cautamente Alice.

“Che, che, bimba!” disse la Duchessa. “Ogni cosa ha la sua morale, purchè voi la possiate trovare.” E si strinse più presso ad Alice mentre parlava.

Ad Alice non piacque l’esser così stretta con lei, primo perchè la Duchessa era bruttissima, secondo, perchè per la sua altezza ella appoggiava il mento sulla spalla d’Alice, ora quel mento era spiacevolmente acuto! Ma pure non volle essere scortese, e sopportò quella noja come meglio potè.

“Il giuoco va meglio ora,” disse così per alimentare la conversazione.

“Eh sì,” rispose la Duchessa: “e questa n’è la morale:—

è amore—è amore—è il pazzeron d’amore Che fa girare il mondo,—ed il mio cuore!

“Ma qualcheduno ha detto invece,” bisbigliò Alice, “se ognuno badasse alle proprie faccende il mondo girerebbe meglio.”

“Bene! L’una vale l’altra,” disse la Duchessa, e mentre conficcava il suo mento acuto nelle spalle d’Alice, continuò, “e la morale di ciò la è questa—‘Guardate al franco; gli spiccioli si guarderanno da sè.‘”

“Come si diletta a trovar la morale in ogni cosa!” pensò Alice.

“Scommetto che siete sorpresa perchè non vi cingo la vita col mio braccio,” disse la Duchessa dopo qualche istante, “ma gli è perchè non so che razza d’umore abbia il vostro fenicòntero. Facciamo la prova?”

“Potrebbe mordervi,” rispose Alice, che non ne voleva di quelli esperimenti.

“è vero,” disse la Duchessa: “i fenicònteri e la senape pizzicano entrambi, e la morale è questa—‘Chi si rassembra s’assembra.‘”

“Ma la senape non è un uccello,” osservò Alice.

“Bene, come sempre,” disse la Duchessa: “voi dite ogni cosa assai benino!”

“è un minerale, credo,” disse Alice.

“Certo,” rispose la Duchessa, che pareva desiderasse d’acconsentire a tutte le cose che diceva Alice; “quì vicino c’è una grande miniera di senape. E la morale di ciò è questa—‘La miniera è la maniera Di gabbar la gente intiera.‘”

“Oh lo so!” sclamò Alice, che non aveva badato alle parole della Duchessa, “è un vegetale. Non ne ha l’apparenza, ma lo è.”

“Proprio così,” disse la Duchessa, “e la morale di ciò è questa—‘Siate quello che volete parere’—o se volete che ve lo dica più semplicemente—‘Non vi crediate mai d’essere altra se non quella che apparite ad altri d’essere o d’essere stata o che possiate essere, e l’esser non è altro che l’essere di quell’essere ch’è l’essere dell’essere, e non altrimenti.‘”

“Credo che l’intenderei meglio,” disse Alice con molta garbatezza, “se me la scriveste, ma non posso seguirvi con la mente quando la dite.”

“Questo è nulla rimpetto a quel che potrei dire, se ne avessi voglia,” soggiunse la Duchessa, contenta come una pasqua.

“Non v’incomodate a dirne di più lunghe di quella che avete recitata or ora,” disse Alice.

“Che incomodo!” rispose la Duchessa. “Vi fo un regalo di tutto ciò che ho detto sino ad ora.”

“è un regalo che costa niente,” pensò Alice. “Buono che non fanno di que’ regali ne’ giorni natalizii!” Ma non osò dir questo a voce alta.

“Sempre meditabonda?” domandò la Duchessa, mentre affondava quel suo mento acuminato sull’omero della bambina.

“Ho ben di che!” rispose vivamente Alice, perchè cominciava a sentirsi annoiata.

E la Duchessa, “Come i porci ne hanno di volare: e la mo—”

Quì, con gran sorpresa d’Alice, la voce della Duchessa andò morendo e si spense in mezzo alla parola ‘morale’ che tanto gradiva; il braccio ch’era nel suo cominciò a tremare. Alice alzò gli occhi, e vide che la Regina stava davanti ad esse, le braccia conserte, accigliata e spaventevole come un uragano.

“Maestà, che bella giornata!” balbettò la Duchessa con voce debole e fioca.

“Vi dò a tempo un avvertimento,” tuonò la Regina, battendo fieramente il terreno col piede; “o voi o la vostra testa dovranno abbandonare il giardino, e ciò subito! Scegliete!”

La Duchessa scelse, e fuggì via in un attimo.

“Ritorniamo al giuoco,” disse la Regina ad Alice, ma Alice era troppo spaventata, non osò rispondere, e la seguì lentamente sul terreno.

Gl’invitati intanto, profittando dell’assenza della Regina, si riposavano all’ombra: però appena la videro ricomparire, ritornarono ai posti loro; la Regina fece soltanto capir loro che se avessero ritardato un momento avrebbero perduta la vita.

Mentre giuocavano, la Regina continuava a querelarsi con altri giuocatori, gridando sempre “Mozzategli il capo!” oppure “Mozzatele il capo!” Coloro ch’erano sentenziati a morte, erano guardati da soldati che doveano cessare di servire d’archi al giuoco, e così in meno di mezz’ora, non c’erano più archi, e tutt’i giuocatori, eccettuati il Re la Regina ed Alice, erano guardati e condannati nel capo.

Finalmente la Regina lasciò il giuoco, tutta sbuffante ed anelante, e disse ad Alice, “Hai veduto la Falsa-Testuggine?”

“Nò,” disse Alice. “Non so neppure che sia la Falsa-Testuggine.”

“è quella con cui si fa la minestra, di falsa Testuggine,” disse la Regina.

“Non ne ho mai veduto, nè udito parlare,” soggiunse Alice.

“Vieni dunque,” disse la Regina, “ed essa ti racconterà la sua storia.”

Mentre andavano insieme, Alice sentì che il Re diceva a voce bassa a tutt’i condannati, “Fo grazia a tutti.” “Oh, ne son lieta!” disse fra sè Alice, perchè sapete, la nostra fanciulla era mestissima vedendo tanta gente condannata a morte dalla Regina.

Tosto giunsero vicino a un Grifone, accoccolato e dormente al sole. (Se voi non sapete che è il Grifone, guardate la vignetta.) “Su, su, pigro!” disse la Regina, “conducete questa fanciulla a vedere la Falsa-Testuggine che le farà il racconto della sua vita. Quanto a me debbo tornare indietro per fare eseguire alcune sentenze di morte;” e andò via, lasciando Alice sola col Grifone. Non piacque ad Alice l’aspetto della bestia, ma poi riflettendo che il rimaner col Grifone non era tanto pericoloso per lei quanto il rimanere con quella selvaggia Regina, stette lì, ed aspettò.

Il Grifone si levò, si stropicciò gli occhi, aspettò che la Regina sparisse totalmente e poi si mise a sghignazzare. “Che commedia!” disse il Grifone, parlando un po’ a sè stesso, un po’ ad Alice.

“Qual’è la commedia?” domandò Alice.

è lei stessa,” soggiunse il Grifone. “è un ruzzo che ha in testa: ma le teste non son mai mozzate per ciò. Venite!”

“Quì ognuno comanda ‘Venite!’” osservò Alice, mentre lo seguiva lentamente. “Non sono stata mai così comandata in tutta la mia vita!”

Non si erano di molto inoltrati quando videro a una certa distanza la Falsa-Testuggine, che sedeva mesta e soletta sull’orlo d’una rupe, ed essendosi avvicinati un poco più, Alice sentì che sospirava come se le si spezzasse il cuore. Ella n’ebbe compassione. “Perchè si duole?” domandò al Grifone, e il Grifone rispose un po’ su un po’ giù come dianzi, “è un ruzzo che ha in testa, non ha dolore di sorta. Venite!”

E andarono verso la Falsa-Testuggine, che li riguardò con certi occhioni ripieni di lagrime, ma senza far motto.

“Questa fanciulla,” disse il Grifone, “vorrebbe sentire la vostra storia, vorrebbe.”

“Gliela racconterò,” rispose la Falsa-Testuggine con voce profonda e sepolcrale. “Sedete, e non dite una parola sin che io abbia terminato.”

E sedettero, e per qualche minuto, niuno fiatò. Intanto Alice osservò fra sè, “Non so come mai terminerà, se non comincia mai.” Ma aspettò pazientemente.

“Una volta,” disse finalmente la Falsa-Testuggine con un gran sospirone “io era una vera Testuggine.”

Quelle parole furono seguite da un altro lunghissimo silenzio, interrotto soltanto da qualche “Hjckrrh!” dal Grifone e da’ singhiozzi continui della Falsa-Testuggine. Alice stava per levarsi e dirle, “Grazie della vostra storia interessante,” quando riflettè che essa doveva dire qualche cosa di più, e sedette tranquillamente, senza far motto.

“Quando eravamo piccini,” continuò la Falsa-Testuggine, un poco più quieta, ma sempre singhiozzando, “andavamo a scuola, al mare. La maestra era una vecchia Testuggine—e noi la chiamavamo Tartaruga—”

“Perchè la chiamavate Tartaruga se non era tale?” domandò Alice.

“La chiamavamo Tartaruga perchè c’insegnava a tartagliare,” disse la Falsa-Testuggine con dispetto: “Avete poco comprendonio!”

“Vi dovreste vergognare di far questioni tanto semplici,” aggiunse il Grifone; e poi zittirono, ed entrambi fissarono gli occhi sulla povera Alice che le pareva sprofondarsi sotterra. Finalmente il Grifone disse alla Falsa-Testuggine, “Va innanzi, comare! Ma non andar per le lunghe, sai!” E così continuò:

“Andavamo a scuola al mare, benchè voi non lo crediate—”

“Non ho mai detto ciò!” interruppe Alice.

“Ma sì,” tuonò la Falsa-Testuggine.

“Zitta!” soggiunse il Grifone pria che Alice avesse potuto rispondere. La Falsa-Testuggine continuò:

“Noi fummo educate benissimo—in fatti andavamo a scuola ogni giorno—”

Anch’io andava a scuola ogni giorno,” disse Alice; “non bisogna vantarsi per così poco.”

“E avevate degli extra?” domandò la Falsa-Testuggine con qualche ansietà.

“Sì,” rispose Alice, “imparavamo il Francese e la musica.”

“E il bucato?” disse la Falsa-Testuggine.

“No, davvero!” disse Alice tutta corrucciata.

“Ah! La vostra dunque non era una buona scuola,” disse la Falsa-Testuggine, come se si sentisse sollevata. “Nella nostra, c’era alla fine del programma: ‘EXTRA: Francese, musica, e bucato.‘”

“Ma non ne avevate bisogno,” disse Alice; “voi vivevate nel fondo del mare.”

“Non ho avuto mai mezzi per impararlo,” soggiunse sospirando la Falsa-Testuggine. “Così seguii soltanto i corsi ordinarii.”

“Cioè?” domandò Alice.

“A Reggere e Stridere prima di tutto,” rispose la Falsa-Testuggine: “e poi le diverse operazioni dell’Aritmetica—Ambizione, Distrazione, Bruttificazione, e Derisione.”

“Non ho mai sentito parlare di ’Bruttificazione,’” disse Alice. “Ch’è mai?‘”

Il Grifone levò le due zampe all’aria in segno di sorpresa e sclamò: “Mai sentito parlare di bruttificazione! Ma sapete che significa bellificazione, eh?”

“Sì,” rispose Alice, ma un pò dubbiosa: “significa—rendere—qualche cosa—più bella.”

“Ebbene,” continuò il Grifone, “se non sapete che significa bruttificare voi siete una sciocca.”

Alice non si vedeva incoraggiata a fare altre domande, così si rivolse alla Falsa-Testuggine, e disse, “Che altro dovevate imparare?”

“Ecco, c’era la Stoia,” rispose la Falsa-Testuggine, contando i soggetti ad uno ad uno sulle natatoie—“la Stoia antica e moderna con la Girografia: poi il Disdegno—il Maestro di Disdegno era un vecchio grongo, e veniva una volta la settimana: c’insegnava il Disdegno, il Passaggio, e la Frittura ad Occhio.”

E questa a che rassomigliava ella?” disse Alice.

“Non ve la potrei mostrare,” rispose la Falsa-Testuggine, “perchè vedete, son tutto d’un pezzo. E il Grifone non l’ha mai imparata.”

“Non ebbi tempo,” rispose il Grifone: “ma studiai le lingue classiche, e bene. Ebbi per maestro un vecchio granchio, sapete.”

“Non andai mai da lui,” disse la Falsa-Testuggine con un sospiro: “mi dissero che insegnava Catino, e Gretto.”

“Proprio così,” disse il Grifone, sospirando anche lui, ed entrambe le bestie nascosero la faccia fra le zampe.

“Quante ore di lezione avevate al giorno?” disse Alice prontamente, per mutare argomento.

“Dieci ore il primo giorno,” rispose la Falsa-Testuggine: “nove il secondo, e così discorrendo.”

“Che metodo curioso!” sclamò Alice.

“Ma è questa la ragione perchè si chiamano lezioni,” osservò il Grifone: “perchè soffrono lesioni ogni giorno.”

Era nuova quell’idea per Alice, e ci pensò su un poco prima di fare quest’altra osservazione. “Allora avevate vacanza l’undecimo giorno?”

“S’intende,” disse la Falsa-Testuggine.

“E come facevate nel duodecimo?” domandò vivamente Alice.

Ma il Grifone l’interruppe, e disse con voce risoluta, “Basta in quanto alle lezioni: dìlle ora qualche cosa dei giuochi.”